C’è qualcosa di magico in Roma a Natale.
Me lo ripetevi spesso, con gli occhi che brillavano ai tuoi ricordi di bambino, mi promettevi che ci saremmo andati in viaggio di nozze o, chissà, magari a viverci qualche mese, avremmo passeggiato lungo il Tevere e bevuto tè da Babingtons, amandoci davanti a una finestra con vista Colosseo.
Mi hai promesso il mondo, sin da quando non eravamo che bambini a Chicago, ma sapevi benissimo che con te sarei stata felice anche in una stanzetta di pochi metri quadri priva di finestre.
Mi bastavi tu. Mi sei sempre bastato solo tu, Jimmy Wright.
«Tine, sei pronta?»
Le luci della stanza si riflettono sulle decorazioni dell’enorme albero di Natale della suite e sui decori d’ottone dello specchio, che mi rimanda l’immagine di una donna ancora giovane, ma che non ha più la freschezza che la felicità sa regalare. La vera dorata all’anulare sinistro a volte pesa come un macigno.
Mi dipingo un sorriso sul volto e apro la porta della suite, trovandomi davanti Christopher Campbell. Se non lo conoscessi, le sue occhiaie aggiungerebbero fascino a un volto di una bellezza quasi da pirata, ma giacché lo conosco da anni, leggo in quelle ombre scure il racconto di un’ennesima notte insonne.
«Assolutamente» replico, prendendolo sotto braccio.
So cosa deve pensare chi ci vede, una donna da sola insieme a tre uomini, riconosco i sussurri scandalizzati, le occhiate quasi offese, ma non mi interessa. Queste persone non capiranno mai perché siamo qui. Non capiranno mai quanto eravate legati voi quattro né quanto follemente ci amavamo io e te.
Non sapranno mai che Amethyst Campbell ha cucito il mio vestito da sposa, né che tuo padre mi ha accompagnata all’altare perché voi siete l’unica famiglia che abbia mai avuto, da quando il nonno è morto. Wright è sempre stato il cognome che ho sentito mio, prima ancora di poterlo usare. Quando mi hanno proposto di venire qui, a Roma, a Natale, per celebrarti tra di noi, lontani dalle occhiate compassionevoli del tuo funerale, non ho potuto dire di no. Ne ho bisogno io. Ne hanno bisogno loro.
Willard Harper sta tamburellando con le sue dita lunghissime sul tavolo del salottino del Plaza Hotel, mentre Paul, il fratello di Chris, sta leggendo il New York Times. Si alzano non appena ci vedono e, tutti insieme, usciamo su via del Corso.
Non è la Roma che hai vissuto, Jimmy, né quella che sognavi: è una Roma ancora ferita dalla guerra, come tutti noi. Le spalle curve di Paul, la mano priva di violino di W, le occhiaie di Chris.
L’assenza alla mia sinistra, quasi fosse un arto fantasma.
Anime rattoppate, apparentemente perfette, ma sfilacciate sotto strati di lustrini.
Tra gli alberi e le ghirlande di Natale spunta un manifesto bianco e nero… “fasci italiani da combattimento”.
«Non mi piace» sussurra Willard, «non mi piace per niente. Siamo appena usciti da un conflitto devastante e…»
«Temi ce ne possa essere un altro?» chiedo con un brivido.
Non arriva nessuna risposta, ma so che stiamo tutti pensando la stessa cosa, l’Italia è un Paese che sta curando le ferite subite, ma c’è qualcosa che non va.
La sala da tè ci accoglie a due passi dai gradoni di piazza di Spagna, con il calore e l’odore di zenzero che mi colpisce dritto allo stomaco. Cerco di ingoiare le lacrime, di continuare a sorridere, di non pensare alla mattina in cui mi hai svegliato con i biscotti di pan di zenzero ignorando qualsiasi tradizione sul non vedere la sposa prima del matrimonio.
Ci sentivamo intoccabili, immortali, nonostante tutto.
Ci sono risate nell’aria, una bambina si sistema il fazzoletto sulle ginocchia con eleganza, una ragazza mostra all’amica l’anello di fidanzamento, una coppia si tiene per mano sopra due tazze di cioccolata calda. C’è speranza, voglia di ricominciare.
Ci accomodiamo a un tavolino e una ragazza prende le ordinazioni: tè per me e Willard, cioccolata per Paul, bourbon per Chris.
So di essere fortunata, in fondo. So che tante donne, rimaste sole, hanno dovuto cercare di sopravvivere nei modi più disparati e molte sono semplicemente scomparse nel nulla. Ho conosciuto una ragazza, qualche settimana fa, che non ricorda nulla del proprio passato: l’ha salvata la voce d’angelo, che le è valsa un ingaggio, salvandola dalla strada.
Io ho la nostra bella casa che mi aspetta a Chicago, un patrimonio solo appena toccato dalla guerra e amici che si fanno in quattro per proteggermi… ma ci sono mattine in cui la tua assenza è troppo da sopportare. Notti in cui vorrei solo urlare e chiedere perché. Un altro anno sta iniziando e sarà il primo senza di te.
E lo so, lo so cosa mi avresti detto: c’è sempre la speranza, sul fondo del vaso.
Ricordo il primo giorno in cui vi ho visti insieme, a Yale, quando mi hai presentato quel Paul di cui tanto parlavi nelle tue lettere, e suo fratello Chris, che faceva sospirare tutte le mie compagne del Vassar College. Ricordo quando Willard mi ha sorriso, facendomi sentire la benvenuta tra voi, facendomi capire che non mi avrebbero allontanato da te, che saresti comunque rimasto mio, come sempre eri stato.
Roma ci avvolge con il suo calore. Via del Corso, quando ci decidiamo a uscire nuovamente in strada, è affollata da valletti carichi di pacchi. In un angolo, quasi invisibile, una bambina chiede l’elemosina: Willard le si avvicina, dà qualche moneta… duro all’apparenza, tenero nell’anima, con un debole per i trovatelli.
Passeggiamo senza meta, guardiamo le vetrine, ascoltiamo chiacchiere in una lingua che non capiamo, finché, senza rendercene conto, ci ritroviamo tra stradine e viottoli che, d’un tratto, si allargano per fare spazio a delle colonne. Marte Ultore, dice un’insegna.
«Stiamo camminando dove un tempo c’erano i fori imperiali» commenta Willard.
E rimaniamo senza parole, senza fiato, sommersi dalla meraviglia di un mondo che non esiste più e che, senza logica, è vivo e pulsante, qui, attorno a noi, circondato da edifici e dalla vita che prosegue, quasi dimenticato, come quella bambina, ma non scomparso.
«Ehi, guardate lì» dice Paul d’un tratto e quando ci voltiamo, oltre una lunga fila di palazzi, la Colonna di Traiano.
«È un peccato che sia quasi tutto coperto…»
«È vero… ma sono qui, sotto i nostri piedi.»
Comprendo il non detto dietro le parole di Paul. Non siamo un po’ tutti così? Nascosti sotto le macerie, nascosti sotto costruzioni nuove, nascosti sotto mille volti diversi, vite diverse, eppure sempre lì, ancora vivi.
Strada dopo strada, Roma ci accoglie lungo secoli di storia; se lei è ancora qui, dopo tutti questi anni, dopo conflitti, re, papi e guerre, forse c’è speranza per tutti noi. Forse avevi ragione tu.
«Eccoci…»
Manca il fiato a me. Manca il fiato a loro.
Willard prende una scatola dalla tasca del cappotto e insieme ci sediamo su uno dei muretti, mentre i romani ci ignorano e noi ignoriamo loro.
Il primo è Paul, che mette nella scatola una spilla di Yale, dove siete diventati parte indissolubile della vita l’uno dell’altro. Quello di Willard mi spezza il cuore, perché è la prima versione, corretta e scarabocchiata, della melodia che ha composto per le nostre nozze, l’ultima che ha scritto. Chris ha portato la tua fiaschetta, quella che dividevate nei pochi momenti di pausa durante il conflitto. È stato l’ultimo a vederti vivo. A volte lo odio, perché è tra le sue braccia che sei spirato e non tra le mie. A volte gli sono grata per essere stato il custode delle tue ultime parole.
Infine tocca a me.
Respiro a fondo, ma non riesco a evitare che mi tremino le mani mentre prendo la piccola ghirlanda di agrifoglio che ho fatto seccare dopo il nostro ultimo Natale insieme. Saremmo dovuti venire qui insieme, Jimmy, come viaggio di nozze. Ti abbiamo portato con noi oggi, per lasciare un pezzo di te qui, nella città che tanto amavi, nel periodo che tanto amavi.
Sei sempre stato un folletto di Natale.
«E ora? Dove la lasciamo?» chiedo indicando la scatola.
Paul vaga un po’ nei paraggi e alla fine trova una pietra che si muove e, in tre, riescono a smuoverla quel che basta per nascondervela dietro.
«E se qualcuno la trovasse?»
Ma in realtà… perché dovrebbero? Quella pietra è stata ferma così a lungo… ti proteggerà, amore mio.
Quando torniamo in hotel è ormai tardi, ma non riesco a prendere sonno. Nel salottino in comune c’è una luce e, su una poltrona, Chris. Non impiego che un attimo per rendermi conto che è ubriaco. Lo è sempre più spesso.
Willard si è rifugiato in una prigione fatta di silenzio. Paul si è immerso nel lavoro, tentando di tenere a galla le Industrie Campbell. Christopher ha trovato nell’alcool il proprio anestetico.
Sono mesi che, impotente, lo guardo autodistruggersi.
Mi inginocchio ai suoi piedi e gli tolgo il bicchiere mentre lui mi guarda con occhi vacui.
«Andiamo» sussurro, e lo costringo ad alzarsi, trascinandolo verso la sua camera e poi sul letto. Pallida ombra dell’uomo che era.
Gli tolgo le scarpe, sciolgo la cravatta e gli poggio addosso una coperta, poi faccio per andarmene, ma mi prende il polso, facendomi fermare.
«Sarebbe dovuto tornare lui. Aveva te e un futuro radioso davanti. E invece sono tornato io e guardami qui…»
Le parole gli escono a fatica, non so se per l’alcool o per i sensi di colpa che lo corrodono dentro.
«Se esistesse una giustizia, Chris, sareste tornati entrambi» replico, cercando di ingoiare il magone.
«Mi dispiace…»
Gli scosto dalla fronte una ciocca di capelli intrisa di sudore e mi siedo accanto a lui. Ed è in questo momento che lo sento, il peso della solitudine di tante, troppe notti.
«Ricordi cosa ti ha detto, prima di morire.»
Custode delle tue ultime parole, del tuo ultimo respiro.
«Che ti amava.»
«E prima ancora?»
Respira. Respira ancora. Respira, quieto, così a lungo che penso si sia addormentato. Mi sdraio accanto a lui, mentre le luci di Natale creano strani giochi di luce sui muri.
«La primavera» sussurra, mentre mi sto per addormentare. «Mi ha detto che sarebbe tornata la primavera. E che saremmo stati felici.»
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"Le rose di Chicago" è una storia che è con me da tantissimi anni, da quando arrivò come un fulmine a ciel sereno dopo aver visto una puntata di The Vampire Diaries ambientata negli anni '20. Da quel momento la storia dei fratelli Campbell è cresciuta con me. Forse è finalmente arrivato il momento di scriverla.
Intanto, inizio a presentarveli, con la prima novella di Natale, dolce e amara, come la primavera che segue l'inverno e profuma di rinascita.
Un inizio di qualcosa di non necessariamente triste come può apparire a primo achito anche perché primavera per me significa rinascita . Penso che Leila ci riempirà di tante emozioni quando tirerà fuori questa sua creatura.
Ho iniziato a leggere il racconto un po' titubante. Non conosco i personaggi, non conosco la loro storia o i loro caratteri. Ma appena hai nominato Roma mi sono incuriosita e detta "se c'è Roma, è sicuramente un porto sicuro". Così è stato; anche se il racconto mi ha lasciato addosso un po' troppa tristezza. Ma spero presto di poter approfondire la conoscenza di questi amici così uniti ma così provati dalla vita.
Non vedo l'ora di leggere il prossimo
Leggere i tuoi racconti di Natale è sempre una sorpresa, non si sa se ci si debba preparare a delle risate o tanti fazzoletti per tamponare le lacrime. Questo ha un sapore splendente e malinconico: è nettamente riconoscibile il tuo stile di scrittura, così come si percepisce il tuo amore per Roma.
I personaggi che hai presentato sembrano una versione Anni 20 dei Moschettieri, con tante crepe dalle quali sembrano voler far di tutto per far entrare la luce. Non vedo l'ora di leggere Chicago! Le aspettative dopo questa "sbirciata" sono molto alte
Ho adorato questo racconto e mi ha lasciato la voglia di sapere di più, di vedere di più. Le immagini che hai descritto sono così vive, così nitide, che mi sembra di essere stata lì con loro. Tutto di questa storia mi ha affascinata: l’amore che c’è stato non solo tra Tine e Jimmy, ma anche tra quei quattro ragazzi, e il rapporto che ora lega lei con gli amici di Jimmy, quasi angeli custodi gli uni degli altri, mentre cercando di trovare un senso alle loro vite dopo eventi devastanti - la guerra, la morte di una persona che amavano. Chicago mi aveva affascinato sin dalla prima volta che tu ne hai parlato, e dopo questa storia voglio di…