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  • Immagine del redattoreLeila Awad

Tutti per uno. Uno per tutti.

L’alcool gli era sembrata l’unica soluzione possibile, in quel momento. Un bicchiere di vino di scarsa qualità gli avrebbe procurato il tanto agognato oblio.

Avrebbe dato qualsiasi cosa per dimenticare come il progetto di tutta una vita fosse stato spazzato via in un attimo da un capriccio di una donna ricca e annoiata.

Era ironico, in fondo, che tutto fosse iniziato con una donna e tutto fosse stato concluso da una donna, eppure difficilmente Victor avrebbe potuto immaginare due persone più diverse.

Sua sorella Emeline aveva il candore delle anime incontaminate dalla bruttura del mondo e un sogno semplice: sposare l’amico d’infanzia e trascorrere il resto della propria vita al suo fianco, nella villa poco lontana dalla casa dei genitori, crescendo i suoi figli e facendogli trovare un piatto caldo non appena fosse tornato dai campi.

La vita, però, aveva deciso di deviare quel destino, manifestandosi come un’epidemia che si era portata via non solo il giovane innamorato, ma anche loro padre, lasciandoli senza soldi e senza futuro; era stata Emeline a trovare una soluzione, alla fine, sposando il falegname del paese, da sempre infatuato di lei, ma molto più vecchio. Victor era l’uomo di casa, si sarebbe dovuto prendere cura delle sue donne, ma aveva solo dieci anni: abbastanza per comprendere la gravità della situazione, ma troppo pochi per potervi rimediare. E così Emeline si era sposata, portando con sé loro madre nella sua nuova casa, ma lasciando il fratellino ai monaci gesuiti affinché lo crescessero.

Tutto era iniziato con il sacrificio di una fanciulla a cui la vita aveva strappato tutto: Victor aveva lasciato la vita di campagna per chiudersi tra le mura di un monastero, ma Emeline aveva avuto ragione a non portarlo con sé, perché lo conosceva e sapeva che sarebbe stato molto più a suo agio in un ambiente di contemplazione e raccoglimento, e pieno di libri da cui attingere il sapere. Dopotutto, non era mai stato una creatura sociale, Victor Vannes.

Non aveva impiegato molto a capire che la vita ecclesiastica gli avrebbe fornito la possibilità di riscattarsi, di diventare una persona influente e ricca, salendo la scala di una gerarchia che, ancorché difficile, non era impossibile; sarebbe tornato da Emeline e dalla madre, si era ripromesso, con ceste colme di doni per loro, e sarebbe diventato potente al punto da poterle proteggere in qualsiasi momento.

A quindici anni Victor era il pupillo dell’abate, che lo aveva mandato ad istruirsi persino fuori i confini francesi, ed era in procinto di trasferirsi a Parigi per fare il grande salto, quando era arrivata lei ed ogni progetto era naufragato. Una nobile annoiata, già vedova a vent’anni che si era incapricciata per lui. Victor aveva sorriso, scuotendo la testa, per niente interessato a farsi coinvolgere da una donna rischiando di mandare a monte la partenza e tutto il suo futuro.

Sciocco. Sciocco e superbo.

Se avesse ceduto, in quel momento Victor si sarebbe trovato nel monastero gesuita di Parigi, anziché in quella bettola a bere vino annacquato. L’aveva rifiutata e lei, per vendicarsi, aveva fatto circolare le voci su una sua presunta omosessualità: davanti a quell’onta, alle parole di una nobile contro quelle di un campagnolo, neppure l’abate aveva potuto far nulla.

Victor era fuggito nella notte come un vigliacco, portando con sé solo la croce che era appartenuta a suo padre, ed era tornato a casa; aveva atteso l’alba davanti alla casa di Emmeline, riparato dalle querce della sua infanzia che sapevano di ricordi e sogni infranti.

Era stata la servitù la prima a uscire di casa e Victor si era avvicinato, pur mantenendosi nell’ombra: nella sala da pranzo sua sorella, palesemente incinta, baciava un bambino di cinque, sei anni, mentre sua madre teneva sulle gambe una bimbetta di circa tre. Sembravano felici. Serene come era stato lui fino al giorno precedente. Come avrebbe potuto presentarsi davanti a loro, senza denaro e con una nomea vergognosa che non avrebbe tardato a raggiungerle? Come sarebbe potuto tornare alla mediocrità, quando aveva sfiorato l’immensità?

Era fuggito per la seconda volta, lungo i prati che aveva percorso l’ultima volta da bambino, con il sole che gli bruciava sul volto mischiandosi alle lacrime di stizza e rabbia, contro quel destino che aveva deviato il corso della sua vita come già aveva fatto con quella di Emeline; sua sorella sembrava felice, ma Victor sapeva quanto effimera fosse la felicità. Le augurava di essere serena, però, e di trovare nei figli l’amore che troppo presto le era stato strappato, così come loro madre aveva trovato consolazione in lei durante la vedovanza. Insieme formavano una famiglia di cui lui non era più parte, non perché non l’avrebbero accolto a braccia aperte, ma perché sarebbero state consapevoli, come lo era lui, che quei luoghi non gli appartenevano più. In fondo, forse, non gli erano mai appartenuti.

L’alcool gli era sembrata l’unica soluzione possibile, dopo due giorni di viaggio, con la polvere come compagnia costante e il cielo unico tetto, silenzioso testimone del suo dramma. Cosa avrebbe fatto?

Victor per sé non riusciva a immaginare alcun futuro lontano dal mondo gesuita: le preghiere del mattino, la contemplazione e l’enorme sapere che si tramandava attraverso i libri erano stati il suo mondo per così tanto tempo, l’unico per cui volesse vivere. Era nato per essere un gesuita.

La risposta a quella domanda non risiedeva sul fondo di quel bicchiere sporco e sbeccato e ormai quasi vuoto, né nella puzza di corpi sudati che saturava l’aria di quella bettola, ma entrambe le cose impedivano ad ulteriori quesiti di formarsi nella sua mente, portandolo ancor più alla deriva di quanto già non fosse.

Non ricordava quale commento l’avesse fatto sobbalzare, probabilmente qualche frase sciocca che, però, gli aveva dato l’occasione perfetta per sfogare tutta la rabbia accumulata e repressa. Sentiva il sangue ribollirgli nelle vene in un modo che fino a poco tempo prima non avrebbe mai creduto possibile e si era limitato ad attaccare, istintivamente e senza pensare, per poi trovarsi accerchiato da tre bruti che sapevano usare la spada molto meglio di lui.

Sarebbe morto così? Ubriaco e coinvolto in una rissa da osteria? Era quella la sua fine, nell’ignominia e lontano da qualsiasi affetto?

Si chiese, mentre provava a parare l’ennesimo colpo, se non fosse in fondo ciò che meritava, una morte ignobile e anonima, come l’ennesimo folle che aveva troppo creduto nei propri sogni e che da esso era stato schiacciato.

Avrebbe voluto almeno la possibilità di confessarsi, ma mentre già si preparava a donare la propria anima a Dio due figure gli si pararono davanti, respingendo i tre aggressori e trascinandolo fuori nella notte fredda.

«Vuoi davvero portarlo con noi?»

«È mezzo svenuto, non possiamo lasciarlo qui. Ci adatteremo.»

Non riusciva ad aprire gli occhi, ma udiva le voci attorno a sé e i rumori delle ruote di un carro, poi qualcuno lo fece sdraiare su un pagliericcio e tutte le forze vennero meno fino a quando, ore dopo, la luce del sole non lo investì in pieno viso: due paia di occhi lo osservavano perplessi, quando finalmente aprì i suoi.

«Ben svegliato!»

Victor si pose immediatamente difensiva, guadagnandosi occhiate divertite.

«Considerando che ti abbiamo salvato la pelle, amico, potresti mostrarti più riconoscente.»

Imbarazzato, comprese che quei due ragazzi non erano suoi nemici, ma l’unica cosa che lo aveva tenuto in vita la sera prima, così tese loro la mano. «Grazie. Il mio nome è Victor Vannes. Vi devo la vita.»

Quello che sembrava il più serio dei due la strinse. «Il mio nome è Raul de Olivier, mentre lui Andrè Pierrefonds. Posso chiedervi cosa vi porta a Parigi?»

Victor alzò le spalle. «Non sapevo dove altro andare. Parigi sembrava la migliore possibilità.»

«Credetemi, quella bettola in cui eravate ieri non è la risposta che cercate.»

«Ne avete una migliore?» chiese.

«Forse, se vi va. Noi stiamo andando ad arruolarci come moschettieri.»

Victor avrebbe riso, se le costole non gli avessero fatto un male dannato. «Credetemi, cappa e spada non fanno per me.»

«Quello era piuttosto evidente» commentò André. «Andiamo Raul, il nostro amico se la caverà, ma noi dobbiamo muoverci.»

Benché non li conoscesse che da poche ore, però, Victor si sentiva così disperatamente solo che non aveva voglia di separarsi da loro. «Come mai i moschettieri?» chiese.

Raul sorrise. «Per i loro ideali, per la loro missione. Proteggi il re. Proteggi la Francia. Il loro motto non è solo qualcosa forgiato con il fuoco sulle spade, ma è ciò che giurano di essere. Tutti per uno, uno per tutti. Qualsiasi cosa accada.»

Victor comprendeva: uno scopo nella vita e una comunità di cui sentirsi parte era stato tutto il suo mondo fino a poco prima, anche se in modo diversi. Vedendo il suo tentennamento, Raul insistette. «Perché non provate? Se non avete altri progetti, cosa vi costa?»

«Non ho denaro» rispose, mortificato, ma l’altro sorrise. «Non importa. Per entrare nei moschettieri, se non si ha denaro sufficiente o una solida raccomandazione, bisogna aver dato prova di sé in qualche campagna o aver prestato servizio in altro reggimento per due anni. Potrete arruolarvi come cadetto all’Accademia. Non c’è nulla di disonorevole, se pensate che il più grande tra i moschettieri, D’Artagnan, ha iniziato così» spiegò e l’altro, a cui sembrava di vedere uno spiraglio di luce per la prima volta dopo giorni, li seguì.

La caserma brulicava di uomini che duellavano, pulivano le armi, parlavano e giocavano a dadi.

Mentre attendevano di esser ricevuti, Victor osservò i due ragazzi per la prima volta nella piena luce del sole. Raoul era evidentemente nobile e aveva una figura longilinea ed elegante, André invece aveva un aspetto possente e un sorriso impertinente sotto i folti baffi. Victor sfiorò la croce appesa al suo collo, distrattamente, ma poi la sua attenzione fu attirata da un moschettiere che usciva dall’ufficio del luogotenente.

«Alexandre Blanchard» gli spiegò sottovoce Raoul. «Uno dei migliori moschettieri e amico intimo del re. Si è arruolato cinque anni fa, giovanissimo, sotto la tutela del luogotenente De Arouet.»

A quella notizia Victor osservò l’uomo con rinnovato interesse; Blanchard era incredibilmente bello, persino lui se ne rendeva conto, e veniva trattato con deferenza e evidente ammirazione dai propri commilitoni.

«Voi tre» esclamò, «siete qui per arruolarvi?»

Raoul si alzò in piedi e rispose per tutti, così vennero fatti accomodare. Il luogotenente De Arouet analizzò le lettere di raccomandazioni di Raoul e Andrè, con evidente ammirazione, poi guardò Victor.

«De Olivier, una famiglia come la vostra non ha bisogno di presentazioni, ma vi ringrazio per i fondi, di cui la caserma ha sempre bisogno. Pierrefonds, una raccomandazione da parte di un cardinale parla da sé. Benvenuti. E voi, Vannes?»

Non c’era sgarberia nel suo tono, ma Victor non riuscì a evitare di arrossire. «Io sono in cerca di una missione, signore. Mi hanno detto che i moschettieri potrebbero darmela.»

Imprevedibilmente, De Arouet annuì senza commentare. «Potete iniziare dall’Accademia e poi decidere se arruolarvi. Alexandre, li lascio tutti e tre al tuo servizio.»

«Bene. Allora venite a prepararvi, che abbiamo un compito importante oggi» commentò quello, precedendoli fuori e accompagnandoli all’armeria, dove presero tutto ciò di cui avevano bisogno.

«Dove andiamo?» chiese a un certo punto Andrè, mentre percorrevano le strade di Parigi. Victor, da parte sua, si guardava attorno estasiato; Parigi era sporca, in massima parte, e confusionaria, ma era Parigi. Aveva pensato di arrivarci diversamente, ma in quel momento non poteva che ringraziare il fato per aver posto quei due ragazzi sul suo cammino: non sapeva se si sarebbe arruolato, ma intanto aveva un progetto, anche se a breve termine.

Quei pensieri, comunque, gli vennero bruscamente strappati quando comprese dove erano diretti: il Louvre. Prima di entrare, Blanchard si voltò verso di loro.

«Confido nella vostra discrezione» commentò, poi li precedette nel palazzo, lungo corridoi riccamente decorati, tra uomini e donne della nobiltà parigina che passeggiavano, fino ad un giardino. Victor non credeva ai propri occhi: solo il giorno prima non aveva futuro, e in quel momento era a pochi passi dal re. Perché non aveva un solo dubbio al mondo che quel ragazzo fosse re Luigi.

Il moschettiere fece loro cenno di rimanere lì e raggiunse il sovrano, che lo accolse con un sorriso che parve illuminare il mondo; i tre ragazzi, seguendo l’esempio degli altri moschettieri già presenti, si disposero lungo il perimetro del giardino, silenziosi, a guardia della vita più preziosa di tutta la Francia.

Il re e il moschettiere parlarono a lungo, consultarono carte, bevvero vino, finché il sovrano non si alzò e si incamminò verso il palazzo; Alexandre, che gli camminava di fianco, fece loro cenno di seguirli e i tre ragazzi eseguirono, tenendosi a debita distanza, fino alle porte delle stanze private della regina, un mondo così femminile che li lasciò senza fiato e, soprattutto, del tutto ignari delle faide interne, con la regina spagnola da una parte e l’amante ufficiale del re, Louise de La Vallière, dall’altro.

Dopotutto, non erano che tre ragazzi ritrovatisi improvvisamente nel bel mezzo di una situazione molto più grande di loro.

Era trascorso un mese da quando avevano lasciato Parigi.

Quella zona a nord della Capitale era tranquilla, avevano dovuto sopire solo qualche rivolta tra proprietari confinanti, ma al re piaceva avere tutto sotto controllo e Alexandre partiva ogni qual volta ve n’era occasione, così i tre ragazzi si erano ormai abituati a quella vita fatta di tende, di ronde, di giacigli umidi e tribunali improvvisati.

Quando Alexandre rientrò, sporco di fango e bagnato dalla testa ai piedi, Victor lo fissò divertito e lo aiutò a spogliarsi, porgendogli poi abiti puliti e asciutti.

«Piove molto?»

Il moschettiere gli lanciò un’occhiata astiosa e si sedette a tavola. «Portami da mangiare, invece di fare lo spiritoso.»

Victor scoppiò a ridere e poggiò sul ripiano due piatti, uno leggermente più pieno dell’altro nonostante Alexandre insistesse a ordinargli di mangiare quanto lui, e due bicchieri colmi di birra calda, che avrebbe scaldato entrambi.

«I tuoi compari?» chiese il moschettiere, dopo qualche cucchiaiata.

«Di ronda. Ce li hai messi tu» replicò, con la familiarità che ormai contraddistingueva i loro rapporti. Erano passati due anni da quando era arrivato a Parigi, due anni di Accademia, due anni di ronda e fatiche, ma anche di soddisfazione all’ombra del più grande tra i grandi, D’Artagnan. E poi, essere così vicini a Blanchard offriva loro una posizione privilegiata a corte. La regina, due settimane prima, gli aveva rivolto parola ringraziandolo per averle raccolto il ventaglio. Non male, per un contadino venuto dal nulla.

«Ti manca mai casa?»

La domanda lo colse impreparato. Aveva scritto spesso a Emeline, ma non era più tornato a trovarle; si diceva che era per mancanza di tempo, ma in verità non era sicuro di riuscire ad affrontare i fantasmi della sua vita.

«A volte, ma non tornerei indietro.»

«Neppure io» replicò l’altro. Victor sapeva quanto le rispettive vite prima dei moschettieri fossero speculare: lui voleva diventare gesuita e si trovava lì quasi per ripiego, l’altro era l’ultimogenito di un marchese che lo aveva destinato alla vita monastica e che lo aveva diseredato quando il figlio aveva deciso di arruolarsi.

Alexandre parlava poco della sua famiglia, considerando de Arouet quasi un padre.

«Hai deciso cosa farai?» gli chiese dopo un po’. «So che non eri sicuro di volerti arruolare, ma dopo due anni mi piacerebbe pensare che tu abbia trovato una famiglia, qui.»

«È così, ma non ho ancora deciso cosa fare» rispose Victor, schiettamente. Si era chiesto spesso se quanto ottenuto fino a quel momento sarebbe bastato a soffocare lo scandalo, se avesse deciso di unirsi nuovamente ai gesuiti, ma non aveva mai avuto il coraggio di tentare. Inoltre, la vita da moschettiere gli aveva davvero dato uno scopo e lui ne era grato. Ma doveva decidere, mancava poco alla data prevista per chi, nel suo corso all’Accademia, avesse deciso di arruolarsi nei moschettieri.

La notte rimase sveglio a lungo, ripensando a un dialogo avuto con D’Artagnan più o meno un anno prima, mentre lo accompagnava da Madame de La Vallière, che era scappata dalla corte. Il re aveva urlato e strepitato e il capitano, che a quel suo re non sapeva dir di no, si era sobbarcato l’ingrato compito.

Gli aveva chiesto com’era iniziata. Gli aveva chiesto della leggenda dei quattro moschettieri.

«Li sfidai a duello tutti e tre la prima volta che li incontrai: avevo la testa piena di sogni, di ideali. Li sfidai a duello, i tre migliori moschettieri di Francia...Ci crederesti?» gli aveva chiesto, con gli occhi pieni di così tanto affetto che Victor si era domandato come potesse esistere un legame così intenso da resistere persino alla morte. Poi aveva pensato a Raoul e Andrè, che erano diventati, in quei mesi, una parte di lui. «Vedi, se me l'avessero detto in quel momento, che nelle mani di quei tre uomini avrei messo la mia vita a occhi chiusi, sapendola al sicuro, probabilmente avrei sfidato a duello anche chi avesse avuto quell'ardire. Si nasce soli e si muore soli, in questo mondo, ma trova lungo il cammino qualcuno fidato al punto da affidargli consapevolmente la tua vita e sarai un uomo fortunato.»

«Athos, Porthos, Aramis e D'Artagnan» aveva risposto, pronunciando quei nomi con timore quasi reverenziale. La fama di quei quattro aveva colpito persino uno scettico come lui, la narrazione delle loro imprese era una storia di cui non si stancava mai.

«Eravamo così diversi, gli uni dagli altri, che non avresti scommesso un centesimo sulla nostra amicizia: un gigante con un cuore enorme, un'anima tormentata che faticava a far convivere croce e spada e l'uomo più onorevole che abbia mai incontrato in vita mia perseguitato dai propri fantasmi. E un guascone. Eppure, ragazzo mio, ancora oggi non sentirai mai quei quattro nomi pronunciati separatamente. Tutti per uno e uno per tutti.»

Era vero. Non esisteva D’Artagnan senza Athos, Porthos e Aramis.

La cappella dei moschettieri sembrava in apparenza deserta, ma una più attenta occhiata gli fece notare una seconda presenza avvolta dalle ombre, silenziosa e raccolta in preghiera; Victor attese, non desideroso di disturbare il raccoglimento dell’uomo, chiunque fosse, e si osservò attorno nella speranza, piuttosto vana considerando l’ora, di trovare un confessore. Solo quando l’uomo si alzò Victor lo riconobbe.

«Animo inquieto?» gli domandò in un sussurro.

«Sempre. Solo la Croce sembra essere in grado di tranquillizzarlo.»

D’Artagnan annuì, facendogli cenno di sedersi accanto a lui.

«Per chi pregate, signore?» Victor si pentì immediatamente della domanda, ma il moschettiere non si scompose affatto.

«Per il re, per le anime dei miei amici e per me, affinché possa trovare la pace. Sai» continuò dopo alcuni istanti, «Aramis una volta mi parlò della confessione generale. Lui ne traeva grande giuramento e una sera, dopo la morte di Milady, confessò tutti noi. È stata la prima e l’ultima volta, ma poche volte ho raggiunto quello stato di pace.»

La confessione generale, la pratica gesuita di revisione di tutta la propria vita, nel tentativo di raggiungere la completa conoscenza di se stessi.

«Mi confessereste, capitano?» chiese di getto, senza pensare.

«Non sono un prete.»

«Ma ascoltereste le mie parole?»

D’Artagnan lo osservò in silenzio, con gli occhi acuti di chi nel corso della vita aveva visto tanto. «Me lo ricordi, sai? Lo stesso animo tormentato, la stessa insoddisfazione.»

Aramis, il suo gesuita.

«Ti ascolterò, Victor, in sua memoria.»

E così il ragazzo si inginocchiò e percorse i diciassette anni della sua esistenza, finché la luce dell’alba non li raggiunse.

Tre ore dopo, Victor Vannes pronunciava il giuramento dei moschettieri, mettendo la propria vita al servizio della Francia e del suo re sotto l’occhio attento di D’Artagnan: aveva bisogno di uno scopo nella vita, i moschettieri glielo avevano dato e forse non avrebbero mai colmato la solitudine che gli affliggeva l’animo da sempre, ma gli avevano dato la consapevolezza che, alla fine, non era davvero solo.

Tutti per uno, uno per tutti.

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